26 Marzo 2021    Alessandra Spagnulo

Il 5 febbraio è stata la Giornata Nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare, giunta ormai all’ottava edizione. Ma cosa è lo “spreco alimentare”? 

Si definisce spreco alimentare “l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare per ragioni commerciali o estetiche, o perché vicini alla scadenza, potenzialmente destinabili al consumo umano o degli animali” (Il Sole 24 Ore).

Cosa vuol dire?

I prodotti alimentari scartati perdono le caratteristiche di “merce”, ma non quelle di “alimento”; cioè, seppur non sono accettati dai tradizionali canali di distribuzione, sono ancora alimenti utilizzabili, e quindi perché buttarli? 

Per capire come e dove poter intervenire per ridurre lo spreco alimentare, dobbiamo considerare che un alimento segue un percorso più o meno lungo prima di arrivare sulle nostre tavole, dalle fasi di produzione e raccolto alle trasformazione e distribuzione, in relazione alla sua tipologia. Nelle prime fasi della catena alimentare (produzione e raccolto), le perdite alimentari definite food losses  riguardano principalmente frutta e ortaggi e sono spesso dovute a limiti delle tecniche agricole e delle infrastrutture coinvolte, oltre che a fattori climatici e ambientali. Tutti questi prodotti per loro natura sono estremamente deperibili e soggetti a danni climatici che ne alterano la parte esterna o che rendono il prodotto fuori pezzatura, il che, attenzione, non vuol dire non edibile, ma solo non adatto al commercio “tradizionale”. Queste problematiche spesso determinano un “mancato raccolto”, praticamente risulta più conveniente per l’agricoltore lasciare in campo il prodotto per ragioni economiche o estetiche piuttosto che raccoglierlo, determinando quindi un’importante perdita. Per intenderci, ad esempio, ciò accade nei casi in cui l’offerta è superiore alla domanda, o quando i costi della raccolta sono superiori rispetto al prezzo del prodotto sul mercato; sono tutte situazioni concrete (e nemmeno così rare) che concorrono a trasformare un prodotto ancora in campo già in un rifiuto. 

Mettendo il caso poi che un prodotto abbia superato questo primo scoglio in campo, la filiera alimentare per i prodotti trasformati o venduti tramite grande distribuzione continua. Subito dopo la fase di produzione e raccolto c’è la fase di trasformazione (prima trasformazione o eventualmente trasformazione industriale) e la distribuzione (rientrano tutte le fasi di trasporto, ma anche le catene di distribuzione come i supermercati), in cui il prodotto è fortemente esposto al rischio di diventare un rifiuto; le perdite in queste fasi sono identificati con il termine food waste. I limiti dei sistemi distributivi, il deterioramento dei prodotti e degli imballaggi, ma anche limiti tecnici dei processi di trasformazione, sono solo alcune delle ragioni alla base di questo spreco. Sicuramente ci viene in aiuto per ridurre gli sprechi alimentari l’innovazione tecnica e tecnologica che coinvolge tutte le fasi di trasformazione, confezionamento, trasporto e distribuzione.

Arrivati sulle nostre tavole, gli alimenti sono ancora esposti ad altissimo rischio spreco, per le eccedenze negli acquisti o nelle porzioni, o per errori nella lettura dell’etichetta e infine per errori nella conservazione degli alimenti. L’entità del problema legato allo spreco domestico la possiamo capire dando qualche numero: nel 2018 ogni famiglia gettava 84,9 kg di cibo all’anno per uno spreco di 2,2 milioni di tonnellate e un costo complessivo di 8,5 miliardi di euro a livello nazionale, che corrisponde allo 0,6% del Pil (Coldiretti [1]). Nel 2020, secondo l’osservatorio Waste Watcher Observatory on Food and Sustainability (su rilevazione Ipsos), sono state buttate via 1.661.107 tonnellate di cibo in casa e 3.624.973 tonnellate complessive (che includono cioè le perdite di filiera), dati ancora estremamente importanti, ma timidamente incoraggianti. È nel pieno dell’emergenza coronavirus che gli italiani sono stati costretti a rimanere a casa tra lockdown e smart working, aumentando il tempo a disposizione per la spesa e in cucina e, di conseguenza, migliorando le abitudini alimentari e la consapevolezza del valore del cibo. I prodotti più a rischio, anche per quanto riguarda lo spreco domestico, restano ortaggi e frutta: il Waste Watcher International Observatory (dati Ipsos [2]) ha messo in luce come nella “top five” degli alimenti più sprecati dalle famiglie italiane vi sono frutta fresca 32,4 g, Insalate 22,8 g, seguite da pane fresco 22,3 g, verdura 22,2 g e per concludere cipolle, aglio e tuberi 21,8 g (dati riferiti a 7 giorni). 

Una delle strategie che abbiamo per combattere lo spreco alimentare domestico e non, secondo un’analisi Coldiretti, è l’acquisto di prodotti deperibili come frutta e ortaggi secondo filiera corta, che permetterebbe di passare dal 40-60% della grande distribuzione alimentare al 15-25% di spreco alimentare per gli acquisti diretti dal produttore agricolo. 

Limitare lo spreco alimentare significa anche fare bene all’ambiente. Infatti, il problema più grosso connesso allo spreco alimentare è che questo non si limita all’atto di gettare via il cibo, ma è, invece, strettamente connesso anche con lo spreco delle risorse impiegate per produrre, stoccare e trasportare un alimento con le implicazioni ambientali che ne conseguono. In queste fasi, l’impatto è principalmente connesso al consumo, anzi allo spreco, di acqua, all’emissione di gas serra (le emissioni connesse allo spreco alimentare sono equiparabili al 20% delle emissioni del settore dei trasporti) e in termini di azoto rilasciato nel terreno dai fertilizzanti, avente un impatto sulla qualità delle acque e sugli ecosistemi. 

I numeri dell’impatto ambientale del mercato globalizzato e della grande distribuzione sono così analizzati da Coldiretti [1]: “È stato calcolato che un chilo di ciliegie dal Cile per giungere sulle tavole italiane deve percorrere quasi 12mila chilometri con un consumo di 6,9 chili di petrolio e l’emissione di 21,6 chili di anidride carbonica, mentre un chilo di mirtilli dall’Argentina deve volare per più di 11mila chilometri con un consumo di 6,4 kg di petrolio che liberano 20,1 chili di anidride carbonica e l’anguria brasiliana, che viaggia per oltre 9mila km, brucia 5,3 chili di petrolio e libera 16,5 chili di anidride carbonica per ogni chilo di prodotto, attraverso il trasporto con mezzi aerei.” Quindi non sarebbe meglio acquistare prodotti locali, considerando che fa bene all’ambiente e che riduce del 60% lo spreco alimentare? 

Ma cosa possiamo fare quindi nel nostro quotidiano, per limitare lo spreco domestico?

 È semplicissimo: basta fare una spesa intelligente, controllando scadenze e comprando solo ciò che effettivamente serve, tenere a mente le quantità quando si cucina, organizzare il frigo secondo le scadenze, privilegiare l’acquisto di prodotti freschi di stagione e direttamente dal produttore, cominciare a sdoganare le doggy bag quando andiamo al ristorante.

Per i più tecnologici poi, si sono fatte conoscere recentemente anche applicazioni molto interessanti per la lotta allo spreco alimentare (come ad esempio “Too good to go”, “Myfood”, “Last Minute Sotto Casa”), che, sulla linea del “troppo buono per essere gettato”, mettono in contatto virtuale commercianti, ristoratori, grande distribuzione e acquirenti che possono acquistare a prezzo ridotto le eccedenze alimentari che altrimenti andrebbero gettate. Molte tra le applicazioni hanno matrice italiana e soprattutto, sono attive su tutto il territorio.

Queste sono solo alcune delle misure che possiamo attuare per contrastare un fenomeno come quello dello spreco alimentare, estremamente dannoso per il nostro ecosistema e per il nostro pianeta. È necessario quindi, nel nostro quotidiano, prestare maggiore attenzione alle nostre abitudini e modificare o eliminare tutte quelle cattive abitudini che sono alla base dello spreco alimentare. Occorre che tutti facciano la loro parte, perché solo insieme si può raggiungere un risultato positivo!

 

[1] La spesa a km0 riduce del 60% gli sprechi alimentari, Coldiretti 02/02/2018

[2] Waste Watcher International Observatory-Università di Bologna-Last Minute Market su dati IPSOS